Le premesse.
Indice del saggio

La costruzione della tramvia elettrica Lecce-San Cataldo ha una lunga storia che risale agli inizi degli anni Settanta dell'Ottocento, all'indomani, cioè, dell'apertura del canale di Suez e dell'attracco della Valigia delle Indie nel porto di Brindisi, diventato lo snodo del traffico marittimo e del commercio internazionale grazie alla felice combinazione dell'integrazione ferro-mare tra i paesi dell'Europa e l'Oriente.

L'arrivo della ferrovia a Brindisi (1865), l'apertura del traforo del Moncenisio (1870), non solo avevano reso più breve il collegamento con Londra, ma avevano posto la città brindisina al centro del percorso per le Indie.

La città di Lecce volle allora, e cercò con ogni mezzo, competere con Brindisi, che in quel momento, grazie all'attività del porto, viveva una stagione di crescita demografica e di sviluppo urbanistico. Il recupero del vecchio porto romano di "Adriano" a San Cataldo [1] divenne l'obiettivo primario dei leccesi che sperarono così di operare una concorrenza commerciale e sottrarre a Brindisi il monopolio marittimo del Salento e della Puglia.

La realizzazione di un'impresa di così notevoli dimensioni, sostenuta dal Comune, dalla Provincia e dalla Camera di Commercio di Lecce, comportava la rimozione del fondo sabbioso del litorale, che non permetteva facili ancoraggi, e soprattutto il risanamento della zona circostante di San Cataldo, paludosa e malarica, che si estendeva per oltre 56 ettari [2]. Due impegni che richiedevano notevoli investimenti di capitali pubblici e privati, e che proiettavano nel medio-lungo periodo la loro realizzazione.
 
L'amministrazione comunale di Lecce, durante il sindacato dell'arch. A. Guariglia (ottobre 1878-agosto 1884), affidò lo studio del progetto dell'ancoraggio, il quarto dopo quelli redatti dagli ingegneri Ferdinando Primicerio (1863), Augusto Pazzi (1865) e Tommaso Mati (1873), all'ing. capo dell'ufficio governativo di Bari, R. Cintio [3]; il quale, nella sua relazione conclusiva, sostenne che non vi fossero le condizioni per poter riconvertire a fini commerciali il porto di San Cataldo "non riscontrandosi -si legge- in alcun modo la convenienza di dare allo stesso una deviazione" e quindi stroncando qualsiasi prospettiva futura. Sollecitava invece gli amministratori leccesi ad investire le risorse nella bonifica della zona, costruendo strade rotabili per agevolare la colonizzazione di quelle terre e restituirle alla produzione agricola [4].
 
Alla Mostra


Il progetto del porto a San Cataldo compilato dagli 
Ingegneri capi Cintio e Joni
(dal progetto Macor-D'Elia per la ferrovia economica - 1882, 
Archivio Storico Comunale di Lecce)

Il Consiglio comunale non accettò le conclusioni del tecnico barese e ribadì, votando all'unanimità un ordine del giorno dei consiglieri Angelantonio Paladini e Luigi Mastracchi Manes, di chiedere al governo nuovi studi per l'ancoraggio di San Cataldo, un'opera "da lungo tempo e vivamente reclamata dal paese" [5].

In quell'occasione, ponendosi la scelta se dare priorità alla costruzione dell'ancoraggio rispetto ai lavori della bonifica o a quelli della ferrovia, si consumò il dissenso tra il sindaco Guariglia e il deputato e presidente della Provincia, Gaetano Brunetti. Si scontrarono cioè due progetti di sviluppo per la città di Lecce; da un lato la prospettiva del sindaco di conferire alla città decoro e vivibilità mettendo mano alle opere pubbliche per migliorare l'igiene e la sanità; dall'altra quella del Brunetti, per il quale l'ancoraggio e i collegamenti ferroviari costituivano i presupposti per evitare l'isolamento della città dal contesto economico e commerciale della regione e del paese. Si andavano concentrando attorno alla questione dell'ancoraggio gli interessi sia di quei proprietari terrieri che avevano possedimenti nell'agro di S. Cataldo, interessati alla bonifica e al risanamento agricolo della zona, sia di quegli imprenditori e commercianti che spingevano per la valorizzazione commerciale e marittima del porto [6].

Il 25 marzo 1882, su proposta dell'ing. Oronzo Orlandi, venne costituito presso la Camera di Commercio il "Comitato Promotore della ferrovia economica Lecce-San Cataldo", che rilanciò prepotentemente, su progetto dell'ing. Carlo Macor, noto all'opinione pubblica salentina per aver predisposto gli studi per i progetti delle ferrovie Lecce-Galatina-Gallipoli e Lecce-Francavilla con diramazione Novoli-Nardò [7], la costruzione di una ferrovia economica come condizione primaria per poter avviare i lavori del porto e quelli della bonifica. La scelta della costruzione della ferrovia era condizionata dai costi e dai tempi di realizzazione, di gran lunga inferiori a quelli previsti per l'ancoraggio e per la bonifica. Essa avrebbe inoltre soddisfatto le esigenze di balneazione dei cittadini leccesi, che in pochi minuti avrebbero raggiunto il mare. La costruzione della ferrovia avrebbe "aiutato potentemente -secondo quanto scriveva Carlo Macor nella sua relazione finale- lo inizio e l'attuazione delle altre due", trasportando facilmente uomini e materiali e "rendendo facile ed economica la costruzione dell'ancoraggio" [8].
 
 
Relazione di Carlo Macor sul progetto "per la formazione di questo Ente complesso che si chiama Ferrovia-ancoraggio-bonifica"

Composto da proprietari terrieri, banchieri e commercianti leccesi il Comitato aveva lo scopo di costituire una Società per azioni con capitale sociale di 400.000 lire. Facevano parte, infatti, il conte Costantino Castriota Scanderberg, che fu nominato presidente, carica che ricopriva anche alla Camera di Commercio di Lecce, i deputati Antonio Panzera, consigliere comunale e provinciale, e Gaetano Brunetti, presidente della Provincia, Giuseppe Colonna consigliere provinciale e comunale, Antonio Costa commerciante, l'avv. Michele De Pandis, Egidio Coppola banchiere, Luigi Vergara e Federico Libertini proprietari terrieri. Giuseppe Leggieri venne nominato segretario, carica che ricopriva anche alla Camera di Commercio.

Il Consiglio comunale, dove quegli interessi erano ben rappresentati, nella seduta del 29 aprile 1882, sotto la spinta del Comitato e di una petizione di "decine di cittadini", inoltrò al Ministero dei LL.PP. la richiesta della costruzione della ferrovia economica, "l'unica via che conduce Lecce alla ricchezza" perché avrebbe agevolato "l'opera di bonifica dei terreni paludosi, la costruzione di un porto, lo impianto di colonie agricole per la coltivazione dei latifondi siti in quelle contrade" [9].

Si pensava infatti di cedere gratuitamente i terreni circostanti per costruire un villaggio di pescatori e di piccoli e medi contadini. Contrariamente a quanto era avvenuto appena un mese prima, quando il Consiglio comunale aveva deliberato di non partecipare alla costituzione del Consorzio per la ferrovia Lecce-Francavilla F.na, in questa occasione invece, su una relazione del consigliere Giuseppe Colonna, deliberò di aprire un capitolo di spesa del bilancio comunale per il periodo 1883-1902, iscrivendo la somma di oltre 10.727 lire.

Il Consiglio provinciale, presieduto da Gaetano Brunetti, sostenne l'iniziativa del Comitato e dell'amministrazione comunale, ed intervenne presso il Governo perché la costruzione della ferrovia Lecce-San Cataldo rientrasse nei requisiti previsti dalla legge 29 luglio 1879, con la quale lo Stato, venendo incontro alle tante richieste che provenivano dai comuni e dalle provincie del regno, aveva programmato la costruzione di altri 1.530 chilometri di ferrovie economiche erogando un contributo di 1.000 lire a chilometro.

Il Consiglio delle Strade Ferrate, esaminato il progetto Macor-D'Elia, ancora una volta affermava l'inopportunità di intraprendere un'impresa che avrebbe richiesto l'investimento di molti capitali al solo scopo di soddisfare "interessi locali". Ed infatti pur riconoscendo "a favore della domanda uno scopo utile, tendente al miglioramento delle condizioni igieniche, allo sviluppo dell'agricoltura, dell'industria e del commercio, la misura di tale utilità è ben lungi - si legge nella comunicazione ministeriale- dall'essere posta in evidenza (... ), in quantoché il progetto di massima della linea, e la relazione stessa dell'autore, ingenerano il dubbio, che la nuova ferrovia tenda soltanto a soddisfare ad interessi locali assai ristretti che certamente non eccedono i limiti del circondario, e che non sia veramente una ferrovia economica di influenza notevole per la provincia ed oltre" [10].

Queste considerazioni, com'era prevedibile, provocarono una dura protesta della città contro il governo, simile a quella che si era sviluppata un decennio prima contro i provvedimenti economici restrittivi, che avevano provocato l'interruzione dei lavori della costruzione delle ferrovie di completamento della provincia. Anche allora il malcontento si era manifestato per il rinvio della costruzione delle linee Taranto-Brindisi e Zollino-Gallipoli perché erano state escluse dai finanziamenti statali, assegnati, invece, ad altre province del Regno. Questa volta però era la città che protestava, tesa al perseguimento del suo obiettivo. Il Consiglio delle Strade Ferrate di fronte al dossier predisposto dall'amministrazione comunale, dalla Provincia e dal Comitato [11] e composto di progetti integrati del porto (compilato fin dal 1881 dal direttore capo dell'ufficio governativo, ing. Joni), della bonifica e della ferrovia, rinviò ancora una volta a momenti più opportuni la costruzione della ferrovia per San Cataldo, a meno che l'amministrazione comunale non avesse anticipato sul proprio bilancio "i mezzi finanziari occorrenti". In altri termini il governo invitava il comune di Lecce a provvedere con i propri mezzi alla costruzione di un'opera ritenuta utile e necessaria per la collettività leccese.

Il braccio di ferro con il governo centrale continuò nei mesi successivi. Dopo ulteriori insistenze del Comitato promotore il Ministro dei LL. PP. dichiarò la disponibilità di concedere al comune per 35 anni un sussidio di 1.000 lire a chilometro esigendo però un progetto esecutivo della ferrovia. Il comune affidò nuovamente agli ingegneri Macor e D'Elia l'incarico di redigere un progetto sulla base di alcuni principi predisposti da una Commissione consigliare composta da Antonio Guariglia, Giovanni Pellegrino, Enrico De Simone, Vincenzo Macchi, Costantino Castriota Scanderberg, Giuseppe Colonna, Luigi Vergara e affiancata dai due ingegneri Macor e D'Elia. I quali presentarono l'8 febbraio 1884 il progetto definitivo che vedeva l'inizio della ferrovia per San Cataldo partire direttamente dalla stazione ferroviaria, quasi a tracciare una continuità tra le ferrovie dello stato, Bologna-Lecce, e la sua naturale continuazione per la località marina, attraversando la città fino al giardino Garibaldi da dove avrebbe imboccato la strada per il borgo di Fulgenzio [12]. Veniva, in altri termini, per la prima volta tracciato il percorso che con alcune modifiche, sarebbe stato quello della tramvia elettrica, anche se il capolinea dalla stazione non fu mai realizzato.

Alla Mostra

Il tracciato cittadino progettato dagli Ingegneri Carlo Macor e Pasquale D'Elia nel 1882
(Archivio Storico Comunale - Lecce)

Quel progetto, inviato al Ministero dei LL. PP. per l'approvazione definitiva, incontrò ulteriori ostacoli dovuti sia alle tante crisi ministeriali che si susseguirono e che misero in discussione la concessione chilometrica del finanziamento statale, sia per la particolare situazione amministrativa del comune capoluogo.

Il tempo infatti non giocò a favore della costruzione della ferrovia per San Cataldo. La tensione ideale dei leccesi sembrò quasi cadere d'un tratto negli anni seguenti. Le insistenze con le quali la classe dirigente cittadina si era mossa nei confronti del governo, sembrarono scemare del tutto. Il consiglio comunale nel bilancio del 1884 non aveva nemmeno inserito un capitolo di spesa per l'esecuzione dei lavori "perché più importanti ed urgenti opere di pubblico interesse reclamavano dall'amministrazione provvedimenti pratici ed esecutivi" [13]. Sotto la minaccia di una epidemia colerica che aveva colpito le provincie napoletane e si temeva per una propagazione alle altre regioni meridionali, la città di Lecce si attrezzava per nuove e più urgenti emergenze [14]. Era cresciuta infatti la domanda di servizi sociali, igienici e sanitari, più che di opere pubbliche a cui il comune dovette far fronte con la costruzione dei basolati, del macello, di servizi igienici pubblici, oltre agli interventi nell'assetto urbanistico della città con l'abbattimento di fabbricati fatiscenti nel centro cittadino [15]. Si faceva strada in quegli anni la convinzione che la modernità del capoluogo si misurava non tanto sulle grandi opere pubbliche, quanto sull'efficienza dei servizi che il comune poteva offrire ai suoi cittadini.
 
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